Tra geografia e politiche. Ripensare lo sviluppo locale

di Francesca Governa
Donzelli, 2014

A cosa serve la geografia? È una disciplina utile oppure no? Ed è l’utilità che può qualificare il valore del sapere geografico o bisogna piuttosto ragionare in termini di rilevanza sociale e politica? Questo libro discute il rapporto fra geografia e politiche pubbliche, concentrandosi sulla relazione fra processi dello sviluppo e territorio. Ragionare attorno al significato della geografia nelle politiche pubbliche porta a diffidare di risposte semplici e superare l’idea che il rapporto fra geografia e politiche possa essere affrontato in termini di utilità pratica e nelle pratiche. La geografia è una pratica conoscitiva portatrice di valori e principi, che richiede un preciso posizionamento etico e politico. In questo studio, la rilevanza della descrizione geografica è vista, prima di tutto, in termini di «responsabilità»; una responsabilità che si manifesta nella sfera pubblica.

Recensione (di Filippo Celata):

Comincerò con un’affermazione che può apparire banalmente apologetica ma che è in realtà un paradosso: il volume di Francesca Governa è utilissimo. Il paradosso risiede nel fatto che l’autrice affronta di petto il tema della geografia come sapere utile, neutrale, al servizio delle politiche territoriali, per smontarlo pezzo a pezzo e porre su nuove basi la rilevanza sociale, politica ed etica della disciplina.
Tale operazione è utilissima per diversi motivi. In primo luogo perché la stagione dello sviluppo locale è da tempo nel pieno di un autunno inoltrato che ha anch’esso natura paradossale. Da un lato, infatti, le enormi aspettative e il rilevante impegno intellettuale e finanziario che lo sviluppo locale ha suscitato in Italia hanno lasciato il posto a delusioni, ripensamenti e reazioni che vanno dalla riduzione di tale impegno a goffi e incompiuti tentativi di ricentralizzazione e di razionalizzazione. D’altro lato, nel dibattito europeo e internazionale, lo sviluppo locale appare quanto mai vivo e vegeto, soprattutto in seguito alla pubblicazione nel 2009 del cosiddetto Rapporto Barca sulle politiche place-based, dal quale è scaturito un vasto dibattito e strumenti quali gli Integrated Territorial Project o i Community-Led Local Development. Essendo tali strumenti in fase di avvio, l’esperienza italiana può essere utile non solo come fonte di ispirazione, ma anche perché le lezioni apprese qui da noi possono servire da esempio, sia in positivo che in negativo. Lo stesso Rapporto Barca non sottovaluta i limiti delle politiche place-based, per esempio il rischio di ‘cattura’ da parte delle elite locali o di “chiusura localistica”. Le risposte che individua sono di migliorare, in primo luogo, le funzioni di coordinamento e controllo svolte a scala nazionale ed europea e, in secondo luogo, di promuovere il dibattito pubblico e la partecipazione dei cittadini alle scelte. Si tratta di problemi e risposte alle quali la geografia italiana non è affatto estranea. Appare per questo ancora più sorprendente che i problemi e le risposte individuate dal volume di Francesca Governa siano di altro tenore.
In questo risiede, a mio avviso, il secondo motivo per il quale il volume è utilissimo: le sue finalità non sono per nulla pratiche, ma epistemologiche e perfino ontologiche. Il volume tenta di rompere gli argini entro i quali la ricerca geografica è stata, in Italia, spesso costretta. Una ricerca non tanto meramente descrittiva, il che andrebbe anche bene, ma priva di solidi fondamenti teorici, troppo banalmente normativa nei toni e negli intenti, a tratti perfino dogmatica, come sottolinea Giuseppe Dematteis nella prefazione. Una scienza che, sempre per riprendere Dematteis, si è pensata troppo spesso al “servizio del re”, e inutilmente, nella misura in cui il ‘re’ non si è mai mostrato molto disposto ad ascoltare. Il tentativo è quello di rifondare la geografia come scienza speculativa che discute i problemi piuttosto che offrire soluzioni, confrontandosi apertamente con un dibattito internazionale (o in lingua inglese, se si preferisce) nell’ambito del quale la disciplina non è per nulla neutrale, ma fortemente critica e a tratti sovversiva. Tale confronto è ampio e tocca moltissimi aspetti quali, nel primo capitolo, le modalità con le quali la geografia radicale, attiva, impegnata è stata ed è interpretata in Italia e all’estero, il problema della rilevanza del sapere geografico, la questione di quale sia o debba essere il suo pubblico; o ancora, nel quarto capitolo, la discussione della prospettiva relazionale e il recupero della nozione di spazio, per molto tempo disprezzata e contrapposta a quella dolce ossessione per il territorio, con i suoi confini e la sua presunta e singolare identità. 
In questo tentativo di apertura, in tutti i sensi, e di messa in discussione di schemi consolidati,  il volume non rappresenta un episodio isolato, e non bisogna andare lontano per trovare sponde. Mi riferisco, ad esempio, al Rapporto sulle politiche territoriali curato da Carlo Salone e Ugo Rossi per la Società Geografica Italiana  nel 2013 – il primo da quando la presidenza della Società è stata assunta da Sergio Conti. Da un lato il rapporto non può che ribadire la centralità del territorio nelle politiche pubbliche ma, d’altro lato, esso problematizza tale centralità parlando di trans-regionalità e di relazionalità, di geografia attiva. E ancora, nel volume riecheggiano le prese di posizione più o meno recenti di Giuseppe Dematteis, quali quella pubblicata da questa stessa Rivista nel 2012, “sul riposizionamento della geografia come conoscenza del possibile” (Vol. 119, pp. 85-94).
Non sono idee nuove, e nemmeno estranee rispetto a quanto i geografi italiani hanno scritto intorno allo sviluppo locale. Se rileggiamo alcuni di quei lavori ritroviamo molti di questi spunti: un territorio mai rinchiuso all’interno di confini rigidi, fatto di relazioni, diversità, trans-scalarità. Si tratta di idee che tuttavia, all’epoca, risultavano un po’ sperdute all’interno di quella che l’autrice definisce “ubriacatura retorica” del territorialismo all’italiana (p. 20), e nel tentativo di fornire comunque un sapere utile alla programmazione e attuazione di piani e programmi. 
A ben vedere su questi temi la geografia italiana si è sempre distinta e ha prodotto alcuni dei suoi spunti migliori. E non mi riferisco solo al ruolo attivo e di ricerca svolto da alcuni geografi italiani nella stagione dello sviluppo locale. Nell’affrontare il tema del rapporto tra sapere geografico e potere politico, il libro ripercorre infatti anche le stagioni precedenti: da Lucio Gambi all’esperienza di geografia democratica. Il frutto più maturo e avanzato di tali riflessioni è senza dubbio le “Metafore della terra” di Giuseppe Dematteis che, non a caso, viene citato già nella prima pagina del volume e risuona in ciascuno dei capitoli successivi. Il che può apparire, a prima vista, singolare, alla luce della recente rilettura che di tale libro hanno dato Juliet Fall e Claudio Minca sulle pagine della rivista Progress in Human Geography. Quell’articolo da un lato racconta splendidamente a una ignara platea di geografi anglofoni quanto precorritrice la geografia italiana fosse a quel tempo rispetto a temi e prospettive che la geografia anglofona ha ‘scoperto’ solo successivamente. D’altro lato, l’articolo liquida quasi tutta la ricerca successiva come in controtendenza rispetto ai primi anni ’80 e alla ‘svolta critica’ della geografia anglofona, proprio per la sua natura policy-oriented. Il che è del tutto legittimo e in parte anche condivisibile, a mio avviso. Non ho tuttavia lo spazio qui e nemmeno titoli sufficienti per entrare nel merito di tale complesso e delicato dibattito. Mi limito a rimandare alla lettura del libro, laddove l’autrice per esempio, nel primo capitolo, contesta l’opposizione binaria tra geografia critica e geografia policy-oriented. Il libro non ignora e non intende liberarsi del tutto di quanto la geografia italiana abbia prodotto in questo secondo ambito; non abbraccia il relativismo assoluto che molta geografia contemporanea propone; non rifiuta il confronto con l’ambito delle politiche, ma pone questo confronto su basi nuove che, a ben vedere, non sono nuove per nulla. 
Nello specifico delle politiche di sviluppo locale, la proposta dell’autrice appare dichiaratamente “moderata”: l’opzione è quella di un territorialismo temperato dal riconoscimento della pluralità e dell’incontenibilità delle relazioni socio-spaziali. Il che può apparire limitante, per lo meno agli occhi di chi scrive. Ma a ben vedere si tratta di una opzione del tutto coerente con l’invito a non abbandonare gli intenti applicativi e perfino normativi di una ricerca geografica che, in Italia, non si mostra molto propensa al radicalismo e alla decostruzione. La proposta è complessivamente quella di un compromesso, nel senso nobile del termine, e da diversi punti di vista: tra visione territoriale e dimensione relazionale, tra luogo e spazio, tra geografia critica e geografia policy-oriented, tra tradizione nazionale e globalizzazione della ricerca. Il libro è in questo del tutto in linea, innanzitutto, con gli auspici di diversi autori nel senso di una geografia (anglofona) maggiormente plurale e pluri-dimensionale. Il tentativo di riconnettere quanto i geografi italiani fanno e scrivono, con il dibattito internazionale, inoltre, non è affatto semplice, ma utilissimo. L’auspicio è che su tali basi nuove, ma non del tutto nuove, la geografia italiana possa più facilmente riconoscersi e rifondarsi.