Il nostro diritto digitale alla città

a cura di Joe Shaw e Mark Graham
Meatspace press, 2017

Quella digitale non è più - se mai lo è stata - una dimensione aggiuntiva, separata o virtuale della vita: è parte del quotidiano di ognuno di noi e del modo in cui viviamo insieme agli altri la città. I dati - quelli che produciamo con i nostri smartphone e quelli amministrativi - rappresentano la posta in gioco per il controllo delle trasformazioni che attraversano la società e le città in particolare. Garantire l’accesso ai dati e le competenze necessarie per utilizzarli sono diventate condizioni determinanti per poter prendere parte alle trasformazioni in atto. La raccolta di scritti tradotti da Valentina Bazzarin e Federico Piovesan e disponibile in open access (cittadigitale.openpolis.it), offre degli spunti di analisi critica di questi temi utilizzando lo stile agile e provocatorio del pamphlet con la chiara intenzione di rivolgersi a un pubblico più ampio di quello tipico dei ricercatori. Il senso è quello di una chiamata, un appello per aprire dibattiti e nuove pratiche sociali nelle nostre città.

Recensione (di Antonello Romano): 
Ne Il diritto alla città (1976) Lefebvre afferma che il tessuto urbano è strettamente connesso con la società urbana e costruito secondo le regole che la società stessa si pone. In tale contesto il diritto alla città si inserisce in un progetto politico ampio che prevede la partecipazione attiva e il controllo diretto, da parte degli abitanti della città, delle questioni più varie che riguardano la  propria vita. Secondo David Harvey il diritto alla città è di fatto il diritto di cambiare e reinventare la città. È un grido, una domanda, un ordine, l’idea di costruire una vita urbana diversa, alternativa. Rivendicare dunque il diritto alla città significa rivendicare una forma di potere decisionale sui processi di urbanizzazione e sul modo in cui le nostre città sono costruite e ricostruite, agendo in modo diretto e radicale. 
Nel corso della storia le città sono sempre state modellate da processi di urbanizzazione, ma anche da fasi di distruzione creativa, che hanno dato origine a ristrutturazioni spaziali, sociali, culturali, economiche profonde. Ed è proprio in tale contesto che si colloca la proposta degli autori e curatori del pamphlet “Il nostro diritto digitale alla città”, con la consapevole fierezza di chi vuole rimettere le cose al tempo e al posto giusto. Le nostre città oggi infatti non sono solo fatte di malta e mattoni, ma sono anche aumentate digitalmente da contenuti creati da noi abitanti. La nostra quotidianità, dal lavoro al tempo libero, dalla produzione al consumo, si fonde oramai con questi elementi. Come argomentato in “Un diritto all’informazione per la città”, la prima “istantanea” del libro, ogni azione e ogni luogo sono riflessi, rappresentati, mediati o condivisi nella loro dimensione digitale, dando luogo a un ambiente urbano oramai ibrido. Il contesto più coerente nel quale inquadrare il libro è dunque quello enunciato da Luciano Floridi secondo cui “se ancora ci stiamo chiedendo se siamo online o offline allora la risposta è che siamo negli anni ‘90”. Nel libro, attraverso nove agevoli letture, si ribadisce di fatto con tenacia e realismo che quella digitale non è più - se mai lo sia stata - una dimensione aggiuntiva, separata o virtuale della vita: essa è parte di ognuno di noi e del modo in cui viviamo insieme agli altri la città. Le istantanee contenute nel libro invitano quindi a riflettere su noi stessi e sulla nostra quotidianità. Ne risulta una riflessione critica che si colloca tra finalità puramente accademica e necessità divulgative più ampie, volte a favorire auspicabili dibattiti pubblici. 
Le città sono sempre più gestite attraverso i cosiddetti sistemi intelligenti: processi algoritmici, oggetti connessi e centri per il comando centralizzato che permeano sempre più l’ambiente urbano. Per tale motivo nel capitolo “Ri-politicizzare i dati”, si afferma che i dati che produciamo con i nostri dispositivi insieme a quelli amministrativi rappresentano la posta in gioco per il controllo delle trasformazioni che attraversano la società e che riguardano il nostro presente e futuro. Perché le città sono governate sempre più secondo l’ideologia della “algorittimizzazione” della vita che tende a “datificare” ogni sorta di processo sociale, ma la dotazione di conoscenza strategica che di questa automazione è sia input che risultato, pur venendo dal basso, si accentra in fondo nella mani di pochissimi. Diventa allora necessario rivendicare un diritto digitale alla città attraverso il linguaggio essenziale della apertura e della diffusione della conoscenza. Garantire l’accesso ai dati, insieme alle competenze necessarie per utilizzarli, diventa una condizione determinante per poter prendere parte alle trasformazioni in atto, piuttosto che limitarsi a subirle. Uno dei modi per farlo, come argomentato in “Accesso Negato: immagini di esclusione e repressione nella smart city”, consiste nell’adottare il diritto informazionale come slogan per la mobilitazione sociale e l’antagonismo politico. Nel contributo, si invita ad una presa di posizione attiva e collettiva ma anche ad una analisi critica rispetto alla veridicità intrinseca dei dati e alla complessità delle tematiche che gravitano attorno ad essi: dal possesso alla trasparenza, dalla privacy all’etica. In tal senso ancora molto rimane da fare per consacrare appieno il processo di apertura e condivisione del dato, come sollecitato per esempio da Tim Berners Lee, inventore del World Wide Web, secondo il quale tale processo deve partire allo stesso tempo “dal basso, dall’intermedio e dall’alto” (intervista in Open Data Study, 2010) per fare in modo che la accessibilità, usabilità, completezza e riutilizzo dei dati siano garantiti davvero per tutti. 
I temi discussi nel libro abbracciano diversi aspetti della nostra era iper-connessa, senza la pretesa di esaustività, ma come esempi di un processo di trasformazione in atto, che ci coinvolge tutti. Ad esempio in “Le varie Gerusalemme sulla mappa” l’autore si domanda in che modo sia possibile contestare la versione di Google di una mappa e la versione di Google del mondo. Molti di noi di fatto usano e interagiscono con le informazioni mediate da Google ma pochi si domandano quali rappresentazioni siano incluse e quali restano escluse; in che modo le tecnologie dell’informazione possano riprodurre o amplificare le più tradizionali rappresentazioni e divisioni del sistema mondo; quali “città della conoscenza” stiamo creando. Il capitolo “La città è nostra (se vogliamo che lo sia)”, suggerisce un approccio ancor più radicale, una autogestion généralisée e dunque una dichiarazione di indipendenza dagli esperti delle agenzie statali e la sfida utopica di gestire autonomamente le nostre informazioni. Il senso è quello di un appello provocatorio finalizzato as aprire un nuovo dibattito sulle nostre città, nel tentativo di scansare “oscuri futuri imminenti” che sono causati da accordi tecno-politici, intesi come negazione del diritto informazionale, secondo quanto sostenuto nel capitolo “Accesso negato: immagini di esclusione e di repressione nella smart city”. In linea con molta ricerca recente sul tema complesso dei dati, l’invito è allora  ad esempio di smettere di inseguire la tecnologia ma piuttosto provare a governarla sulla base delle nostre esigenze. Potremmo utilizzare i dati non solo per diventare più efficienti, ma per diventare più umani e connetterci con noi stessi e gli altri a un livello più profondo. 
Un punto fermo emerge da tutte le istantanee contenute nel pamphlet: oggi le città sono sia digitali che materiali. ne discende che per i diritti e per l’uguaglianza deve espandersi dagli spazi materiali alla sfera digitale per poi ritornare a quella materiale. Per questo motivo “lavoratori digitali della città, unitevi!”, perché se privati del diritto informazionale, la possibilità di ritrovarsi tra i protagonisti inconsapevoli di un episodio della serie tv Black Mirror diviene sempre più grottescamente plausibile.